Odissea, novembre 2013


Appunti cretesi

Nel preparare la valigia per partire, dimentichiamo sempre qualcosa. Un po’ come quando ci apprestiamo ad affrontare la vita.Chi ama la mitologia o ha avuto la fortuna di leggere “Il Minotauro” di Dürrenmatt, non dovrebbe visitare il Palazzo di Cnosso: tutto è così fasullo che si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un sito ricostruito dalla “Disney”!Peccato, contrariamente alle informazioni ricevute dall’ufficio del turismo greco a Milano, trovo chiusi sia Festós che Górtina: ecco un ottimo pretesto per tornare!

In compenso, nella vicina area archeologica di Agía Triáda, accanto ai resti di una villa reale minoica immersa in un silenzio irreale, ho ammirato gli affreschi del XIV secolo che decorano l’abside della cappella di Agíos Geórgios, stupendi nonostante il pessimo stato di conservazione.

Lungo la strada da Festòs a Mátala: terra rossa, sposa di questo cielo blu. Luce precisa, sapiente. Vitigni vestiti d’autunno e distese di ulivi che scuotono le loro chiome d’argento nel vento tiepido di ottobre.

Mentre camminiamo nella realtà, non possiamo sapere ancora quale fra i luoghi che stiamo attraversando fungerà, domani, da scenario dei nostri sogni.

Mátala: Sepolcri romani, scavati in un costone di roccia color ocra, sferzato da un vento africano, a picco sul mare. Anche progettando le stanze del loro sonno eterno gli antichi romani si preoccupavano di garantire la bellezza. Avendo forse intuito che il messaggio in essa contenuto sarebbe sopravvissuto ai millenni.

Di certo prima o poi qualcuno calpesterà le nostre tombe.

Questa sera ho notato un uomo che portava con orgoglio uno stuzzicadenti dietro l’orecchio.

La notte, a Creta, il vento va a dormire.

Che cosa “vedrei”, del mondo, se non avessi occhi?

Solo croci bianche e fiori colorati nei cimiteri greci, nessun dettaglio lugubre: una concezione serena della morte mediata dall’Oriente?

Tempietti ortodossi disseminati per la campagna: testimoni silenziosi di un sentimento pagano mai sopito.

Certe gole rocciose, simili a ferite nel ventre della Terra, si spalancano in improvvisi teatri di luce. Accanto a colline d’argilla che svettano come enormi mammelle da mungere.

Non credo in nessuna religione. Però nel monastero di Préveli ho acceso una candela alla vita. L’ho posta vicino alle altre, tutte infilate nella sabbia, inconsapevolmente unite a simboleggiare un fuoco sacro. Mi sono abbandonata alla superstizione di esprimere un desiderio impossibile, fingendo per un attimo di credere che si sarebbe avverato. A commuovermi la magia di quella fiamma cui avevo dato vita per capriccio e che, nella penombra del tempio, con pazienza, avrebbe sciolto la cera per restituirla alla terra: occorre tempo per venire alla luce ma anche per tornare cenere.

Ogni passo nel futuro ti porta nuove emozioni. E se viaggi nello spazio, oltre che nel tempo, allora si moltiplicano.

Costa sud di Creta, ultima propaggine d’Europa, una roccaforte affacciata sul mar Libico: qui il sole regala languidi, lentissimi tramonti.

Le stelle, da queste parti, giocano a nascondersi fra rocce altissime e rami di palme: così ci appaiono solo costellazioni mutilate, quasi preferissero non farsi riconoscere.

Mi resterà il rimpianto di non essere approdata a Gávdos, isola coricata nel canale libico, a 26 miglia dalla costa cretese, già abitata nel neolitico, nota col nome di Clauda in epoca romana, covo di pirati sotto la dominazione araba. Per raggiungerla occorrono diverse ore di navigazione e in questa stagione i collegamenti scarseggiano. La rotta più breve – 2 ore e mezza – da Hóra Sfakíon.

Una curiosità. Creta, culla di civiltà, è a forma di culla.

Padrona di strade semi-deserte, mentre profili di paesaggi sconosciuti mi vengono incontro, guido a velocità sostenuta, pennellando ogni curva. E sorrido all’idea che sarebbe piacevole, con la stessa naturalezza, poter dominare l’ignoto.

Senza la civiltà micenea, quale diversa direzione avrebbe imboccato il nostro pensiero?

Viaggio senza radio, né tom tom, né cd. Uno sciame di pensieri mi tiene compagnia per qualche istante, prima di volare fuori dal finestrino abbassato. Sul sedile accanto a me, la cartina geografica ha un’aria un po’ frustrata, perché non la consulto quasi mai: ho già presente il percorso o, al limite, chiedo indicazioni. Come sottofondo musicale, il requiem di Tomás Luis de Victoria (Sanchidrìan 1548 – Madrid 1611): scoperto mesi fa, poi ascoltato decine di volte, tanto che ora provo a riprodurne a mente l’amato suono.

L’aria profuma di finocchio selvatico bruciato dal sole.

Sono diventata arteriosclerotica persino sul fronte onirico. Sogno forsennatamente, ogni notte, come stanotte: trame complicate, dialoghi stimolanti, nitide architetture. Poi non ricordo più nulla.

Sono un sorvegliato speciale. Sotto stretto controllo da parte di me stessa. Distratta e smemorata come sono, quando mi muovo da sola all’estero devo fare attenzione a non perdere o dimenticare borsa, bagagli, documenti d’identità, biglietti vari, fogli col programma del viaggio, contanti, carte di credito, tablet, cellulare, macchina fotografica, occhiali da sole, l’unica chiave dell’auto a noleggio: uno sforzo di concentrazione continuo!

Anche a Creta ho incontrato una percentuale piuttosto elevata di greci rozzi e ottusi, forse i diretti discendenti delle orde di Slavi, Avari e Bulgari che, fra V e VIII secolo dopo Cristo, invasero la Grecia spazzando via le popolazioni autoctone, disperdendo così quel prezioso patrimonio cromosomico ellenico originario che in maniera tanto straordinaria ha contribuito allo sviluppo della civiltà occidentale.

I greci, in genere, producono vini mediocri. Creta fa eccezione. Ho gustato un bianco fantastico: “Vidiano” del 2012, cantina Lyrarakis. Per la verità apprezzo anche il vino di Sámos, ricorda un passito. Già noto nell’antichità, a Milano l’ho trovato da Superpolo.

Spiaggia di Préveli. Nel pomeriggio, sotto un cielo di zaffíro, ho camminato da sola, lungo un torrentello gelido, trasparente, che si faceva strada attraverso un palmeto. Ho seguito questo anonimo, inconsapevole ponte sull’Africa, fino alla sua modestissima foce e con esso mi sono mescolata alle tiepide acque marine.

Plataniás. Un delizioso yogurt al rosmarino. Al ristorante “Kianos”. Ho domandato al proprietario che cosa significasse questa parola. Mi ha risposto: “luce blu”. Per collegamento di idee ho pensato al termine Kuanós, che in greco indicava il “fiordaliso.”

Alla Penisola di Gramvoúsa, in nave. Durante la traversata capto uno scambio di battute demenziale. Lui, italiano aitante e saccente: “Il vero nome della città è “Split”, poi italianizzato in Spalato.” Lei, croata ma altrettanto ignorante, gli risponde: “Confermo, è proprio così!”
Dal forte veneziano, panorama di primordiale bellezza: vale l’arrampicata.
Bálos, oasi marina protetta, una laguna incantata, maldiviana. Mi tornerà in mente un attimo prima di lasciare questa Terra.

Nei dintorni di Paleohóra ho assaggiato una squisita “Sfakiá pita”, pizza al formaggio, sottile e croccante, affogata nel miele, un dolce tipico del villaggio di Hóra Sfakíon. Chissà se la pasta della “pita” è un’antenata della “pizza”?

Stanotte la natura ha allestito uno spettacolo d’eccezione: nubi di panna montata in festoso girotondo attorno alla luna piena e, sul mare, una radura di luce.

Creta risulta interessante anche sul versante gastronomico. I piatti tradizionali vengono realizzati con cura e quelli rivisitati rivelano gusto e fantasia. Achei, dori, romani, arabi, bizantini, genovesi, veneziani, turchi: dietro ogni invasione, una scia di sapori.

Isolotto di Elafonisi: premio al cosmo per la miglior scenografia! La passeggiata fra piccole insenature di sabbia rosa e sensualissime dune è fonte per gli occhi di continua meraviglia. Non ho scattato nessuna foto. Come immortalare una bellezza a 360 gradi? Forse nemmeno un filmato saprebbe restituire il senso di perfetta armonia che emana da questo luogo.

A nuoto perlustro in lungo e in largo la splendida insenatura di Falásarna. Nessuna macchia di modernità ad alterare la quiete di questo mare eterno: niente barche a motore, né moto d’acqua, né musica assordante. Nelle orecchie, e sulla pelle, solo la carezza delle onde, e del vento.

Haniá, la Canea, in italiano. Palazzetti veneziani affacciati sull’Egeo. La moschea dei Giannizzeri, un diamante incastonato nel porticciolo. Al museo archeologico, sarcofagi dipinti di età micenea. Al ristorante Tamam, ricavato negli antichi bagni turchi, un’ottima “cheese-pie”, clone in miniatura di seadas sarda.

Penisola di Akrotíri. Monastero di Gouvernéto: sotto una patina fatiscente, tracce di antico splendore.

Al Monastero di Agía Triáda (noto anche col nome di “Tzangorolou”, in quanto fondato nel XVII secolo dal monaco veneziano Geremia Zangaroli): un anziano pope, in una nube d’incenso, benedice i fedeli inginocchiati in lunga fila davanti a lui.

A Réthimno, rimango stregata dalla fontana Raimondi.

Modestamente, mi sono rivolta i complimenti per la perfetta organizzazione del viaggio, pianificato in totale autonomia fin nei minimi dettagli.) Unico inconveniente, ho guidato un po’ troppo, procurandomi un attacco di lombalgia acuta: “prove di vecchiaia”!

Ho letto che Creta rappresenta il cuore geografico della rosa dei venti. Sarà vero? Sud-est, scirocco, dalla Siria; sud-ovest, libeccio, dalla Libia; nord-ovest, maestrale, da Roma, “magistra mundi”. In base a questa teoria, soffiando da nord-est, il grecale risulterebbe però provenire dalla Turchia…

Una tipica pasta di Creta, nota col nome di “skiuficta”, somiglia alle trofie: eredità genovese?

Da “Terzaki”, a Iráklio, ho assaggiato due piatti favolosi: “asicolibros”, una verdura stufata non meglio identificata, e “loukoumades”, bomboloni mignon annegati nel miele.

Museo archeologico di Iráklio: un autentico Paese delle Meraviglie: scultura, arte vetraria, oreficeria… E poi, ancora: scudi in bronzo lavorati a sbalzo; monete ateniesi del V secolo a.C., con l’effigie della dea Atena a proteggere la città eponima, le stesse che maneggiò Pericle; una statua romana del dio Pan dall’occhio terrifico, rinvenuta a Górtina; l’affascinante disco di Festòs, con misteriosi, ipnotici, spiraliformi geroglifici incisi nell’argilla; uova di struzzo istoriate, simboli di rinascita, parte di corredi funebri. Ecco, potrei continuare all’infinito. Ma ciò che mi ha colpito fino a commuovermi sono stati i capolavori ospitati nella prima sala, strappi d’affresco di epoca neopalaziale, 1500-1600 avanti Cristo: tratto sicuro, gusto raffinato, uno stile moderno, quasi visionario, caratterizzano queste composizioni animate da un originalissimo senso del colore e ispirate a un grande afflato di spiritualità. Ma perché stupirsene? I primi dipinti rupestri (El Castello, Spagna) si collocano in un arco temporale compreso fra i 41.000 e i 37.000 anni prima di Cristo. E, da allora in poi, all’umanità non sono certo mancate le occasioni per esercitarsi nell’arte figurativa!

Isola antica, mare sereno, cieli pieni di luce: nel grigiore milanese, avrò un’immensa nostalgia di Creta.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.