“Adozioni e dintorni”


C’è chi riesce ad amare un figlio adottivo come se fosse suo. A maggior ragione, quindi, dovrebbe venir naturale nutrire, per un figlio generato da noi, un affetto ancor più grande. In un certo qual modo, è come se quell’amore che da un lato ci spìnge a procreare, dall’altro ci chiedesse di poter vivere più a lungo, sino a prolungarsi oltre la nostra esistenza, come un testimone passato ai discendenti.

Tuttavia, per decidere di mettere al mondo un figlio, amarsi probabilmente non basta. Di solito, solo chi è fortemente attaccato alla vita, ha il coraggio – consapevole o irrazionale, questo poco importa – di regalarla a un altro essere. Idealmente, il figlio nasce dall’abbraccio appassionato, dalla voluttà di perdersi nell’altro, dal sogno di trasformare un magico incontro di anime nella realtà di un individuo in carne e ossa. Il figlio, in fondo, costituisce la prova vivente di quella spinta a fondersi che porta l’uomo e la donna a superare le proprie individualità, cosi da sentirsi finalmente una cosa sola, quasi una sorta di nuova creatura. In sostanza, all’origine del concepimento, c’è quell’affannosa ricerca di comunione, quell’aspirazione irresistibile all’unità primigenia che, nel congiungimento amoroso, si esprime appieno nell’atto – per certi versi metafisico – della penetrazione.

Gettando il seme di noi oltre il limite proibito della morte, ci dibattiamo nel tentativo disperato di esorcizzare la nostra fine o, almeno, di posticiparla. E, nel donarci all’altro, ecco che ci facciamo dunque strumento di vita. Perchè, allora, dovremmo stupirci che un amore capace addirittura di creare la vita, possa anelare a veder riprodotti in essa proprio quei tratti che l’hanno ispirato? Assistere alla nascita di un essere partorito da te, e osservare come in lui si sommino – nella fisionomia e nel carattere – aspetti di te e della persona che ami, dev’essere un’esperienza esaltante e fantastica, probabilmente la più meravigliosa e sublime cui il genere umano sia chiamato. Quale sintesi, infatti, può dirsi più perfetta, di quella per cui due cervelli, due anime e due corpi si attraggono e si compenetrano al punto da formare un essere nuovo?

Ma, nell’istinto alla procreazione, c’è anche un altro elemento in grado di giocare un ruolo fondamentale, ed è la pulsione innata a trasmettere ai posteri quello specialissimo cocktail cromosomico che rappresenta il codice genetico di ciò che siamo. Ognuno di noi, in effetti, rappresenta l’ultimo anello di una catena di scelte di variabili volute dal caso e dalla necessità, dalla logica e dalla fortuna o, più semplicemente, da mere considerazioni di gusto estetico. Il risultato è un “unicum prezioso”, una specie di opera d’arte che è sopravvissuta al fluire del tempo e che, per non soccombere, ha un’unica possibilità: quella di riprodursi nella copia di un figlio.

Quanto a un figlio adottivo, si potrà amarlo anche teneramente, e si cercherà, nell’educarlo, di portare a galla le sue qualità migliori. Forse, egli abbraccerà in parte i nostri valori e in lui potremo talvolta riconoscere pallidi residui dei pensieri a noi cari. Eppure, il sorriso, lo sguardo, la voce e le reazioni istintive di quel figlio che non è nato da noi, non avranno in sè nulla che ci appartenga, nulla di ciò che riteniamo più intimamente nostro: gli occhi con cui quel bambino ci guarderà non saranno i nostri, ma gli occhi estranei di uomini e donne venuti da lontano, e arrivati sino a noi da tempi e spazi che nulla hanno a che spartire con l’orgoglio delle nostre radici.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.