Il Giornale, 17 aprile 1998


La lingua italiana conta circa 2 milioni di voci. Di fatto, però, se ne usano molte meno. E persino i vocabolari migliori registrano in media non più di 550 mila lemmi. Chi appartiene agli strati colti di un Paese industrializzato come il nostro conosce circa 50 mila vocaboli. I più eruditi, se dotati di una memoria eccezionale, arrivano a 80 mila. Eppure, prima di ricorrere alle «parole di bassa frequenza», che sono centinaia di migliaia e rappresentano un tesoro sterminato, anche i più dotti si appellano all’autorità del dizionario, per il timore di inciampare in qualche trappola linguistica. In base agli ultimi dati fomiti dall’Istat, gli analfabeti sono il 2,1% della popolazione – un milione e 146 mila persone – e, conseguita la licenza media, il 38% dei ragazzi abbandona la scuola.

Le parole più conosciute, quelle che gli italiani con un’istruzione media riescono a capire senza troppa difficoltà, arrivano a 10 mila al massimo e nel «Disc», il «Dizionario Italiano Sabatini Coletti», edito da Giunti nel maggio ’97, le troviamo indicate a una a una, evidenziate da un fondino grigio.

L’esiguità dei termini impiegati nel linguaggio corrente è la sola magagna della nostra lingua. Giovanni Nencioni, presidente dell’Accademia della Crusca, segnala un altro aspetto preoccupante, rappresentato dalla crescente tecnificazione del lessico, fenomeno che si è acutizzato negli ultimi dieci anni, per il progressivo sviluppo della tecnologia industriale. La gente tende a disdegnare i vocaboli comuni, quelli di uso quotidiano, per sostituirli con termini tecnici e locuzioni dotte, per impressionare l’interlocutore con un eloquio erudito. Per questo motivo, le parole tradizionali rischiano di rimanere impigliate nelle maglie di inutili latinismi e grecismi o di venir sommerse dall’onda lunga della mania tecnicistica. Da un punto di vista linguistico, Nencioni trova assurdo che la stitichezza sia stata quasi del tutto soppiantata dalla stipsi, che i giornali diano notizia del sisma e non del terremoto, che il buon vecchio mal di testa sia stato rimpiazzato dall’emicrania e dalla cefalea, che enucleare abbia fatto lo sgambetto a dedurre e che anziché timbrare il biglietto, si debba obliterarlo. Auspica, inoltre, un aggiornamento dei vocabolari che permetta di dare ospitalità alla miriade di neologismi che le fucine industriali straniere sfornano a ritmo continuo per battezzare nuovi prodotti e metodologie innovative da immettere sul mercato. Il presidente della Crusca ha inoltre ricordato che se fino a cent’anni fa – o anche meno – la lingua italiana veniva scritta da persone colte, che in famiglia parlavano dialetto, con l’Unità d’Italia e l’istruzione obbligatoria si sono gettate le prime basi per l’unificazione linguistica. Negli ultimi cinquant’anni, grazie alla Tv, questo processo ha subito un’accelerazione notevole, che ha reso possibile una diffusione più capillare della lingua e consentito anche agli strati meno abbienti di prendere parte alla vita pubblica, e politica, della nazione.

Nencioni ritiene che la scuola dovrebbe impegnarsi a migliorare il livello qualitativo di conoscenza della lingua, insegnando ai ragazzi l’arte di conversare.

Tullio De Mauro, professore ordinario di linguistica generale all’Università La Sapienza di Roma, studioso che conduce ricerche fra le scolaresche italiane, conferma che, spesso, la scuola fornisce una preparazione linguistica inadeguata. Ha scoperto che ci sono studenti universitari che ignorano del tutto parole contenute nei libri di testo dei bienni. C’è chi crede, tanto per dirne una, che adulterare voglia dire commettere adulterio. Ecco perché De Mauro consiglia di tenersi alla larga dai termini inutilmente complicati e suggerisce di non dare mai per scontato che i nostri interlocutori conoscano il significato delle parole che usiamo, nemmeno quelle per noi ovvie. Infine raccomanda uno studio sistematico del vocabolario, per stimolare nelle giovani menti il desiderio di arricchire, e affinare, le proprie capacità espressive.

Sul vocabolario, in effetti, si incontrano parole mai sentite, si ritrovano quelle dimenticate, se ne apprendono di nuove. Un’avventura affascinante, che si rinnova sfogliando le pagine del Dizionario italiano delle parole difficili, curato da Achille Lucarini e pubblicato di recente da Editori Riuniti. Leggere questo libro è un lusso, un po’ come avere un aio privato pronto in ogni momento a trasferirci il suo sapere e a spiegarci che l’oniomania è la tendenza morbosa a comprare qualsiasi cosa, che apoftegma è sinonimo di aforisma, che il gambrinismo è l’intossicazione da birra, in onore del mitico re germanico Gambrinus, inventore di questa bevanda deliziosa. Penetrare il mistero delle parole, insomma, è un po’ come essere ammessi nel santuario del pensiero.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.