Stupore e silenzio nella scrittura di Lidia Sella
di Paolo Maria Mariano
L’aforisma è il regno della brevità: talvolta l’espressione di ciò che si ritiene essere il distillato di una pacata riflessione protratta nel tempo, talaltra l’emersione da un gorgo ampio e tumultuoso di pensieri, alla ricerca di aria per non affogare. Raccolti insieme, gli aforismi possono interconnettersi per assonanze concettuali o per dissonanze, quando si fronteggiano per contrasto. La mutua vicinanza sulla pagina e il raggrupparsi tematico possono allora essere veicolo di ulteriori richiami e significati. È questa consapevolezza -ritengo -ciò che ha spinto Lidia Sella a suddividere in sezioni gli aforismi del suo Pensieri Superstiti (puntoacapo, marzo 2020) .- la cui scrittura è attraversata e parzialmente emerge dalla fascinazione per il discorso scientifico intitolando ciascuna sezione con ciò che è -o meglio, si propone di essere
– il retroterra da cui gli afot-is1ni pertinenti provengono e su cui ritornano ad affacciarsi.
Se si guarda a ogni sezione come a una poesia, ciò che sembra emergere è una poetica dello stupore che tende ad essere anche una poetica del silenzio, quest’ultimo inteso come tempo sospeso, ambito della riflessione, ricerca di voce interi0t·e. In ciascuna sezione c’è un ‘apparente lontananza concettuale tra le porzioni che la compongono (ciascuna un aforisma); c’è anche una lontananza tipografica: la scelta eh pronunciata scansione tra gli aforismi è, come elemento visivo, di per se stessa invito a ricercare il tempo della riflessione. La poesia -lo sappiamo -è anche materia di ritmo, eh musica, cioè di suono esteriore (perché vocale) e interiore. Il lieder era canzone (composizione pet· voce solista e pianoforte) ma era anche poesia, così ‘Accademia Svedese ha considerato poesia e ha premiato i testi delle canzoni di Dylan; la tradizione francese e quella russa intendono la poesia come “magia della musica”, che nella Achmatova e in Brodskij emerge anche da quella che fu la loro scelta di rivolgersi a strutture metriche classiche. «Quando ero giovane -diceva losif Brodskij ad Anne-Maria Brumm, durante un’intervista inclusa nella raccolta in Conversazioni (Adelphi, 2015) -più giovane intendo, la mia poesia, be’, la mia poesia, i miei versi, diciamo, eremo molto “sonori”. Usavo parecchia strumentazione. C’erano molti suoni. Semplicemente, del punto di vista fonetico era una poesia molto bella,, o meglio, mi sembrava che lo fosse. (ride) Ma adesso ha un suono più impersonale. Direi che è (pausa) meno emozionante [ … ] quando scrivo preferisco ricordare. Il personaggio delle mie poesie è un personaggio che preferisce ricordare piuttosto che fare previsioni».
Suono e silenzio partecipano entrambi della musica; John Cage provocò con il suo 4’33” di silenzio in cui il pianista rimane immoto davanti allo strumento, silenzio che emerge da un surplus di suoni. Così Lidia Sella tende -se così si può dire -a un silenzio attonito in tutte le sezioni del suo libro -quelle sezioni che, per analogia visiva, potremmo considerare come stanze arredate dagli aforismi, quali mobili diversi ma complementa1·i -e questo con l’eccezione eh Parola [p. 53], dove l’onomatopea rimbalza gioiosa e vi è un fluire verbale che rifiuta la stringatezza inseguendo il gorgheggio. Ho già citato lo stupore che appare nella scrittura di Lidia Sella; è stupore per la struttura del mondo, o meglio, devo dire, per la nostra percezione interpretativa della struttura del mondo, e quello -lo stupore, intendo -la porta alla fascinazione per il discorso scientifico. La percezione di quel discorso è, però, velata perché non emerge dall’esercizio diletto, dalla prassi ad esso associata; è mediata dal racconto altrui e quindi porta con sé la soggezione che la mediazione comporta. La fascinazione per la scienza -in particolare per la cosmologia e la biologia molecolare -è per Lidia Sella il ceppo attorno al quale intessere quesiti esistenziali. L’influenza di questa attrazione sulla propria scrittura appare in sezioni ( o stanze)
quali Teorie [p. 74], Fenomeni [p.36], Zero [p. 77], Infiniti [p. 43], Definizioni [p. 24]. In quest’ultima sezione, l’autrice scrive «Buchi
neri: il brivido del non essere». D’altra parte, però, se si identifica il “non essere”, vuol dire che esso è. Con \Wittgenstein, del “non essere” in senso cosmologico e ontologico si dovrebbe tacere perché non si può parlare… se non forse solo per sottrazione -per un aspetto analogo si veda anche Emozioni [p. 30], nella proposizione finale. Ed è proprio Emozioni che introduce un altro fattore che motiva e sorregge Pensieri Superstiti: un senso intimo di malinconia, quello delle emozioni del proprio vissuto. Non è sorprendente questa traccia in chiunque scriva: siamo impastati di memoria e ciascuno scrive attraverso il sé di qui e ora, e attraverso il proprio vissuto da cui quel sé emerge. La nostra memoria, però, è selettiva ed evanescente; è influenzata e -di conve1·so -influenza il nostro sentimento del tempo. Ed è proprio questo sentimento che pervade quasi in maniera prepotente Pensieri Superstiti, che l’autrice stessa sostiene eh considerare «una zattera siti flutti del tempo», come scrive in immagini [p. 41]. Della caducità che al tempo s’accompagna vi è una consapevolezza quasi dolorosa. La si vede in Fiume [p. 38], in Incontri [p. 42], in Infiniti [p. 43], in Ricette [p. 61 ], in Viaggio [p. 76]. L’autrice considera il tempo uno “schiacciasassi”, come scrive in Metamorfosi [p. 49], che porta (lo si vede in Ricette [p. 61]) al «mostruoso disfacimento del proprio corpo». All’abbraccio del tempo oppone il desiderio di lasciare una traccia (Profezie [p. 57]) che non lasci trasportare dal caos e dal caso, in essi annegando.
«Figlio del caos / il caso della vita», scrive a p. 27 in contrapposizione al titolo della sezione: Destini.
Quando parliamo di caos, dovremmo ricordare che esso riguarda i sistemi dinamici; ha radici deterministiche; è associato alla sensibilità delle equazioni differenziali alle condizioni iniziali -instabilità strutturale nel senso di Poincaré -quell’instabilità che suggerì a Edward Lorenz, impegnato in modelli matematici dell’andamento meteorologico, di scegliere per una sua conferenza del 1979 il titolo evocativo “Può, il batter d’ali di farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?” per rendere in maniera figurativa il fenomeno di instabilità che arginava la possibilità di prevedere l’andamento atmosferico per tempi lunghi, tramite il modello di cui discuteva. Perché il caos si verifichi, inoltre, un sistema dinamico deve essere tale che le traiettorie che esso descrive (le soluzioni di quelle equazioni che lo determinano) transitino in tutto lo spazio degli stati sul passare del tempo e siano dense in quello spazio, nel senso che si possa andare “vicino” a qualsiasi stato. Del caso bisogna dire cosa innanzitutto s’intenda per esso. Istintivamente lo si dipinge come completa arbitrarietà. In realtà, se si guarda al caso in termini matematici, come misura definita su uno spazio di eventi… ma qui comincio a diventare tecnico e tenderei a fermarmi… comunque, se lo si vede in quel modo, si scopre che il caso – persino lui – ha le sue leggi (e sono stringenti) e perfino la sua regolarità, come ha chiaramente mostrato Martin Hairer, meritando per questo la ‘Medaglia Fields’ nel 2014. Il ritratto che ne emerge è allora complesso e si discosta in certo qual modo da un associazione d’istinto.
Se intendiamo quasi come paradosso la contrapposizione tra l’aforisma di p. 27, già citato, e il titolo della sezione, Destini, e cerchiamo altri intendimenti simili in Pensieri Superstiti, possiamo anche trovare una certa simpatia dell’autrice per il paradosso. «lo credo nella verità che non esiste», scrive in Provocazioni [p. 60]. L’affermazione è offerta come verità… quindi almeno quella verità esiste.
Questi paradossi sono – per così dire – scivolamenti dell’immaginazione, ed essa, “l’immaginazione”, scrive in Destini [p. 27], «plasma il tessuto del reale», richiamando una vecchia fase di Einstein per il quale «l’immaginazione abbraccia il mondo». D’altra parte, ciò che si può dire è che l’immaginazione plasma la rappresentazione della nostra percezione dei fatti soggiacenti alla percezione stessa. Da qui nascono domande. L’autrice ne pone direttamente alcune in Domande [p. 29]: «Le particelle che ci compongono I rispondono al principio d’indeterminazione: I perché stupirci se siamo imprevedibili?»… e si dovrebbe ricordare, però, che è perché a livello macroscopico c’è cooperazione e interazione tra gli elementi costitutivi della materia, per cui l’indeterminatezza delle particelle subatomiche cui si associa la possibilità di “essere contemporaneamente” in stati differenti, viene per così dire “regolarizzata”. in termini tecnici si dice che la funzione d’onda collassa, cioè sceglie uno stato. Non bisogna interpretare il principio d’indetern1inazione (nei fatti associato alla circostanza che usiamo operatori hermitiani per descrivere la meccanica delle particelle) in maniera fuorviante, né flettere altri esempi, come quello del gatto di Schrodinger ( quello chiuso in una scatola in cui l’apertura di una fiala di gas venefico è dovuta alla possibilità che si verifichi il decadimento di una certa sostanza radioattiva) – in cui il comportamento quantistico è condizionato dall’essere connesso a un sistema macroscopico – per supportare nostre convinzioni altre dal discorso fisico o per pura convenienza, come purtroppo capita in qualche divulgazione furbesca ma poi, in fondo, vacua; semmai questi aspetti mostrano l’importanza della ricerca sui fondamenti delle teorie fisiche.
A scala macroscopica quella del corpo umano, l’imprevedibilità nasce dalle fluttuazioni della coscienza, e come questa sia connessa al comportamento fisico microscopico.11011 è dato al momento sapere. Di certo l’osservazione del mondo pone domande; i tentativi cli risposta, poi, ne aprono ulteriori. E alle domande – sia quelle esplicite di Domande [p. 29] sia quanto è implicito in altri passaggi – si può accompagnare talvolta tristezza, o anche solo malinconia o disincanto per l’essere o per quello che poteva essere e non è stato. Quel sentimento, la malinconia, attraversa tutta la scrittura di Lidia Sella ma, infine, non riesce ad estromettere la gioia (Gioia [p. 39]), come non dovrebbe riuscire a fare in alcuno.