Rinascita, 24 maggio 2007


Perché piango ascoltando il Requiem di Mozart o il Preludio del Tristano? Perché mi commuovo ammirando il Davide e Golia di Caravaggio e davanti alla Crocefissione di Masaccio rimango come sconvolta?

Vengo misteriosamente attratta da ciò che ha il potere di farmi soffrire, vengo investita da una sorta di dolcissima malinconia: da una parte non riesco trattenere le lacrime; dall’altra provo un intenso piacere, intellettuale, emotivo ed estetico. Logico supporre che tale propensione possa manifestarsi di preferenza in quei soggetti, come me, per natura un po’ masochisti. Sin qui, il ragionamento scorre senza particolari intoppi. Eppure sono sicura che il problema possa essere considerato da molteplici altre angolazioni.

Le opere che più mi colpiscono, in realtà, sono quelle capaci di comunicarmi il tormento esistenziale e il dramma interiore di chi le ha create. Ma come mai è proprio questo l’aspetto che più mi affascina dell’arte?

Forse perché mi rendo conto che un’umanità priva di sofferenza, ben difficilmente avrebbe saputo produrre capolavori immortali?

Sono convinta, in effetti, che per rappresentare fedelmente il destino dell’uomo, non si possa prescindere dalla centralità del dolore. Che ne sarebbe della nostra specie se ci fosse stato risparmiato il confronto con la morte, la vecchiaia, la malattia?

Senza il male, l’errore e il peccato, l’essere umano avrebbe mai scoperto di possedere un’anima? Se la nostra sorte ci avesse regalato solo la gioia, in che modo saremmo diventati adulti?

Solo i grandi sanno risalire alle radici dell’angoscia, ci propongono riflessioni geniali, ci coinvolgono e incuriosiscono davvero, solo loro si sono spinti tanto in là nei territori della conoscenza da tornare sino a noi con una fiaccola di verità per illuminare i nostri abissi. Nella cultura occidentale è raro però che, per raggiungere le vette del pensiero, si passi attraverso la felicità. E anche laddove l’estasi ha funzionato da tramite per accedere alla rivelazione, si è poi finito per coglierne perlopiù l’effimera amarezza e l’insito presentimento della perdita.

Talvolta il travaglio interiore che l’artista esprime arriva a turbarmi in maniera violenta. Di fronte a quelle tematiche universali ed eterne che da sempre appartengono all’inconscio collettivo, le mie corde più intime sembrano tendersi e vibrare. Quando ricevo messaggi sublimi dal passato, ne ricavo finalmente un po’ di consolazione, mi sento meno sola. In fondo persino la disperazione, se è capace di superare indenne i secoli o i millenni, può aggiungere significato alle nostre vite.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.