Portofino Coast, estate 2000


Cronaca di un Incontro

E stato un incontro strano, quello con Carlo Bo, critico letterario di fama internazionale, già docente di letteratura francese e spagnola e, dal 1984, Senatore a vita L’avevo inseguito a lungo perché, a dispetto dell’età, è spesso in giro: si divide fra Milano, Sestri Levante, dove è nato nel 1911, e l’Università degli Studi di Urbino, di cui è ancora Rettore. Sono andata a trovarlo nella sua abitazione milanese, in una calda giornata di maggio, con il polline che fioccava come fosse neve. La governante mi ha accompagnata nel suo studio. Lui mi aspettava sprofondato in poltrona, intento a fumarsi un sigaro toscano, in compagnia dei suoi amici più cari: i libri. Se appartengono a una persona che li ama e li legge davvero, i libri diventano presenze vive, capaci di trasmettere non solo l’energia che si sprigiona dal pensiero dell’autore, simile a una stella che a volte continua a pulsare per millenni, ma anche l’emozione di chi ha attraversato quelle pagine con l’anima ferita. I volumi erano talmente tanti che negli scaffali non ci stavano più: alcuni si erano sistemati in alte pigne lungo le pareti; altri avevano preferito accomodarsi sotto la finestra; qualcuno attendeva fuori, in anticamera. Tutti quei testi, sui quali persino Omero, il gatto soriano, si muoveva con grande familiarità, stavano lì, in quel sacro rifugio dell’immaginazione, a testimoniare l’inesausta sete di conoscenza di colui che li aveva voluti attorno a sé per carpirne i segreti. Ma dentro quella stanza, così semplice eppure così ricca di memorie, in quel tempio della meditazione esistenziale e filosofica, io respiravo una sofferenza muta, un dolore dell’animo che lui mi ha confessato quasi subito, fotografando il suo strazio con queste parole, parole che non potrò dimenticare: “Adesso sono qui con me stesso, più povero di quando ho cominciato. Ho letto, ho studiato, e tutto è scivolato via, come l’acqua: un bilancio disastroso”. Davanti a una simile disperazione, sono rimasta turbata. Malgrado ciò, ho tentato di rilanciare: “Però esiste almeno il ricordo, l’unico paradiso dal quale nessuno ci può cacciare”. Ebbene, il suo commento è stato: “Ormai ricordo solo i morti. Gran parte del mio tempo lo passo dialogando con chi non c’è più. Quando leggo una biografia, parto sempre dalla conclusione, per capire in che modo quella persona se n’è andata”. “Le piacerebbe essere immortale?”, ho azzardato allora. “Per carità, che noia!”, ha sussurrato lui con una punta d’ironia. La sua voce si era fatta più fievole, e io avevo l’impressione che il nostro colloquio lo affaticasse. Perciò, benché fossi impaziente di scavare fra le pieghe del suo passato e decifrare la sua visione del mondo, gli ho chiesto se preferiva che interrompessimo la nostra conversazione. Lui mi ha risposto che potevamo procedere, a patto che fosse solo per poco, perché incominciava appunto ad avvertire un filo di stanchezza. Peccato, ho pensato… Mi spiaceva, in effetti, dovermi già congedare da un letterato del suo calibro, uno che oltretutto aveva avuto la fortuna e il privilegio di coltivare rapporti di amicizia con personalità di spicco della cultura italiana come Papini, Sbarbaro, Montale e tanti altri. Ad ogni modo, ho proseguito: “C’è ancora qualcosa di cui lei si stupisce?” “Di essere vivo”, mi ha confidato e, nel pronunciare questa frase, mi ha sorriso impercettibilmente, un sorriso carico di una dolcezza infinita e di un’infinita malinconia, la malinconia dell’uomo di genio. Quanto al suo vissuto con la religione, ecco il ritratto che ha tracciato di sé stesso: “Sono molto cattolico o, se non altro, questa sarebbe la mia aspirazione. Nella realtà, tuttavia, il credente è assalito dai medesimi dubbi o, in qualche caso, da dubbi addirittura maggiori rispetto a quelli che nutre lo scettico. Io sono stato un grande peccatore, ho commesso tutti i peccati possibili. E ora sono qui che medito, e non riesco a capacitarmi perché ho fatto certe cose, perché ne ho dette altre. Inoltre, mi rimprovero di essere stato egoista nell’ambito della famiglia”. Dopodiché, in tono di estremo rammarico, ha aggiunto: “Perdipiù, sono consapevole di essere stato un cattivo professore”. Di fronte a un tale sconforto, mi sono sentita del tutto impotente. Mi ha commosso, in un personaggio come lui, una modestia così sincera. L’ho invitato a considerare quanto la sua autocritica fosse feroce e l’ho esortato a valutare piuttosto ciò che di positivo aveva costruito nell’arco della sua lunga esistenza. Ho cercato di consolarlo, ma con scarsi risultati. E la sua incessante lotta interiore mi ha ricordato una frase che Kafka aveva scritto nella “Lettera al padre”: “Da quando ho l’uso della ragione, tanto mi tormenta il problema della sopravvivenza spirituale, che tutto il resto mi è indifferente”. Ciò che più mi ha colpito in lui è stato che, nonostante si accusasse senza pietà di aver fallito su tutti i fronti, con sé stesso e con gli altri, il suo sguardo non aveva smesso di comunicare un grande amore e, dal suo volto segnato, si irradiava una forza che era indizio di una saggezza assoluta, rasserenante. A lui era bastata un’ora per svelarmi il suo patrimonio di squisita umanità, un bagaglio di riflessioni che in molti non avrebbero saputo trasferire nemmeno se avessero avuto a disposizione una vita intera. Appena sono arrivata a casa sua, e l’ho visto, ho provato un certo imbarazzo: mi squadrava con l’aria leggermente scocciata di chi non desidera essere importunato. Nel corso dell’intervista, però, a poco a poco si è ammorbidito. A sorpresa, ogni tanto, ha iniziato poi a darmi del tu, come se lui fosse il docente e io l’allieva, una circostanza che mi ha assai lusingato. A tratti, anzi, è passato dall’altra parte della barricata, e ha preso a interrogarmi sulle mie vicende sentimentali, con la medesima curiosità mista a tenerezza di un padre affettuoso che si preoccupi per la felicità di sua figlia. Forse aveva intuito che, in un certo senso, eravamo creature simili: due esseri lontani nel tempo, sebbene accomunati da un’identica angoscia, egualmente perseguitati dall’opprimente senso di inutilità che si associa a qualunque tipo di scelta. Ho avuto la sensazione che il saluto che ci siamo scambiati sulla porta, prima che io me ne andassi, e dopo neanche un’ora che ci eravamo conosciuti, sia costato fatica a entrambi. Probabilmente per il presentimento che quello fosse un addio. La sorte è misteriosa. Ci sono spiriti legati magari da affinità profonde e che, viceversa, camminano su sentieri destinati, chissà perché, a incrociarsi solo di sfuggita. Di una cosa, comunque, sono sicura. Quando Carlo Bo, fra una miriade di anni, salirà lassù, nel suo sfolgorante angolo di Paradiso, allora potrà finalmente tuffarsi di nuovo nella Baia del Silenzio, in quel mare blu di Sestri tanto amato, assieme a sua sorella Laura e, con lei, raggiungerà a nuoto il promontorio dei Castelli, per approdare infine sull’altra spiaggia, là, oltre la punta, come facevano sempre, una volta, da ragazzi.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.