L’Europeo, ottobre 2003


Dialogo sulla solitudine

Giorgio Armani e Coco Chanel non si sono mai conosciuti.

Ma questa conversazione immaginaria tra i due grandi protagonisti della moda internazionale è costruita fedelmente su quanto entrambi hanno dichiarato in varie interviste, controllate con rigore nel ricco archivio del Centro di Documentazione di RCS Media Group

GIORGIO: Credo che la prima funzione della moda sia quella ovvia, ma non sempre seguita, di rendere più belle e interessanti le persone.

COCO: Però un bel vestito non riuscirà mai a far diventare interessante una donna che non lo è. Comunque la mia preoccupazione maggiore è quella di confezionare vestiti che non siano démodé vent’anni dopo.

GIORGIO: In effetti, lo stilista vero è uno che riesce a durare nel tempo, a dare un marchio inconfondibile alle sue creazioni. D’altronde, quando un abito è davvero splendido, ed è disegnato con talento, allora conserva la sua bellezza anche per il futuro. Lo disegno nei ritagli di tempo, fra un lavoro e l’altro, magari su un tavolo del laboratorio…

COCO: Per prima cosa io non disegno. Non ho mai disegnato un vestito. Adopero la matita solo per tingermi gli occhi e scrivere lettere. Scolpisco il modello, più che disegnarlo. Prendo la stoffa e taglio. Poi la appiccico con gli spilli su un manichino e, se va, qualcuno la cuce. Se non va, la scucio e poi la ritaglio. Se non va ancora, la butto via e ricomincio da capo. In tutta sincerità, non so nemmeno cucire.

GIORGIO: Per far questo mestiere non occorre saper cucire. Occorre un grandissimo occhio e saper capire cosa non funziona in una tela. Perché i modelli prototipo si realizzano prima in tela, e non c’è il colore, non c’è il tessuto. Si viaggia in un deserto di sabbia e occorre valutare che cosa in un capo di prova non corrisponde al disegno originale. Poi le correzioni le fanno i tecnici, ma sono io a dire cosa fare e cosa non fare. Comincio dai “no”, quando inizio a pensare a una nuova collezione. È dalla somma di quei “no” che i miei abiti prendono una forma sempre più chiara e definita. Credo di avere del talento nel togliere, nell’eliminare, quando gli altri invece aggiungerebbero. È il rigore il principale canone estetico cui mi attengo. Il superfluo vorrei eliminarlo sempre.

COCO: Quando taglio la stoffa e la appiccico con gli spilli, comincio anch’io a levare il superfluo e non vi resta che un vestito Chanel. Il mio è uno stile laconico.

GIORGIO: Però io tendo anche a eliminare le differenze tra uomo e donna. Ho regalato all’uomo la scioltezza, la flessuosità, la morbidezza della donna. E alla donna il comfort, l’eleganza dell’uomo. La mascolinizzazione dell’abbigliamento femminile è andata di pari passo con la femminilizzazione di quello maschile.

COCO: Invece, per me, una donna deve essere femminile al massimo. Se una donna si veste come un uomo, è finita. Io mai mi vestirò così, e mai una delle mie clienti si vestirà in questo modo.

GIORGIO: Alla donna ho dato i pantaloni, la camicia, la giacca, usando in modo femminile argomenti maschili.

COCO: I pantaloni… anch’io ne faccio qualcuno, ma per lo sport, per la sera quando si è in casa propria, fra pochi amici. I pantaloni sono in genere un capo molto pericoloso per la donna, specie per le francesi e le italiane che hanno poca gamba e un sedere spesso bassino. Forse si illudono di aver la figura di quei giovinetti dalle anche strette, tutti muscolo, e un piccolo sedere ben alto. Quanto poi alla minigonna, è semplicemente un orrore. Una gonna a metà coscia non aumenta il potere di seduzione della donna, anzi. Trovo che la minigonna sia un modo di vestire semplicemente brutto, e senza pudore. Adottando la minigonna, la donna ha perduto la battaglia dello “charme”. Non conosco un solo uomo che, pur apprezzando la minigonna, sarebbe disposto a uscire con una donna vestita in questo modo. Certo, lo so, oggi si può andare in minigonna a una “Royal Performance” davanti alla regina d’Inghilterra, o in Vaticano, in visita dal Papa. Sembra che la cosa non abbia più importanza, ma nessuno mi leva dalla testa che si tratta di un oltraggio bello e buono. Ma perché ci si deve vestire così? Perché si debbono mettere in mostra le ginocchia, che raramente sono belle?

GIORGIO: Ma il corto ormai c’è sempre, anche perché sono poche le donne che indossano il lungo. E se l’ho proposto in maniera così decisa, è perché lo ritengo una realtà già assodata. Molte donne amano esporre le gambe: le utilizzano come armi micidiali…

COCO: Le donne? Sono pazze. Prima vestivano per piacere agli uomini, adesso soltanto per sbalordirsi l’una con l’altra. La moda è diventata sregolatezza. Ma non può esser carnevale tutto l’anno!

GIORGIO: Anche nella follia si può avere classe. Oggi si confonde la classe con il rigore, la noia, la sobrietà. Secondo me la classe può esprimersi anche nella stravaganza. La donna vuole rinnovarsi più velocemente. E attende da noi un’indicazione. Tuttavia è stata spinta verso direzioni poco realistiche: per sei mesi raccoglitrice di riso, per sei mesi creatura romantica. Ritmi di cambiamento insostenibili.

COCO: Fra poco ci sarà persino chi costringerà le donne a portare in bocca un morso da cavallo e a galoppare, visto che c’è già chi le veste da bambola, da indiana, o peggio, da cosmonauta.

GIORGIO: Del resto io penso che la gente abbia voglia in questo momento di sentirsi un po’ meno guidata dalla moda, di cambiare, di permettersi qualcosa di più del solito classico, lo comunque continuo a guardare le ragazzine per la strada. Sono loro che fanno la moda e che determinano, alla fine, anche quella della mamma.

COCO: D’accordo. Guardiamo come si veste la gente, in strada.

Che cosa troviamo? Che i “borghesi” si vestono come “pezzenti”. E ti pare giusto? A me sembra disgustoso. Il dramma di questo momento è proprio che adesso la moda si è messa a salire dalla strada, invece di scendervi. E questo è molto sbagliato. Non c’è più pudore né eleganza nelle strade di Parigi.

GIORGIO: A me capita di vedere continuamente persone di entrambi i sessi non ricche eppure elegantissime e, invece, miliardari ai quali fornirei volentieri una consulenza

COCO: Molti credono che il lusso sia il contrario della povertà. No: è il contrario della volgarità. Coloro che hanno soltanto la ricchezza sono molto più poveri dei poveri.

GIORGIO: Io mi sento isolato proprio perché non amo la volgarità. E la volgarità è stata espressa in ogni maniera di questi tempi. Personalmente il lusso non lo sopporto, come non sopporto certe immagini oggi vincenti: lo straricco che gira con una certa automobile, e veste con una firma da capo a piedi. Un tempo per lusso s’intendeva un prodotto esclusivo, venduto in pochi negozi. Il lusso di oggi è massificato e la massificazione del lusso ha portato confusione. Altro fatto negativo è stato l’annullamento della creatività con il minimalismo. E, non a caso, ultimamente il made in Italy langue. Forse anche perché manca il ricambio generazionale. Non dimentichiamo che i giovani sono la linfa vitale.

COCO: Nemmeno la moda francese, del resto, ha più nulla da dire. La couture è finita, morta e sepolta sotto la valanga di cattivo gusto che si è sprigionata da tutte le parti. E, in compenso, io continuo a essere copiata! È il mio destino! Sono sempre stata copiata. Tanto meglio. Vuol dire che il mio stile piace sempre. Se copiano i miei vestiti, vuol dire che piacciono. Se piacciono, vuol dire che io ho ragione. Alla base d’un plagio, ci sono ammirazione e passione.

GIORGIO: Ne convengo. Se prima i miei imitatori li giudicavo dei falsari che potevano compromettere il mercato Armani, oggi preferisco considerarli dei fan. Copiando la mia moda, riconoscono nel mio stile lo stile vincente. Forse perché è l’arte il punto di partenza della mia moda. Ho disegnato ispirandomi a Klimt, Kandinskij, Matisse, Van Gogh e, ultimamente, Picasso, con la sua tavolozza di colori, la sua atmosfera.

COCO: No, la couture non è un’arte. La couture è un mestiere. Io non sono un genio, né un’artista, sono soltanto una piccola sarta. Un vestito non è un quadro, un’opera d’arte eterna, ma una deliziosa, effìmera creazione. Ciononostante i grandi sarti disegnano i modelli immaginando che le donne siano come le case di Le Corbusier, montate su pilastri in cemento armato. Per alcuni miei geniali colleghi il corpo è tutto all’infuori di un corpo. I loro vestiti sono opera di architetti, scultori, pittori, decoratori. Capolavori di equilibrio, armonia e audacia: ma non sono vestiti. Non possono indossarli le donne normali, perché diventano ridicole. Ma i miei colleghi vogliono farle apparire ridicole. E sapete perché? Perché odiano le donne.

GIORGIO: Quanto all’accusa di non amare le donne, per quanto mi riguarda, è vero esattamente il contrario. In realtà ho sempre voluto vedere tutte le donne come regine. Forse perché ho molta stima di loro e sono convinto che oggi le donne possano sedurre senza ricorrere ai mezzi più scontati. Una donna può essere sexy senza arrivare a mettersi addosso abiti indecenti. Sono rimasto fedele al buon gusto e alla raffinatezza: gli unici canoni, alla fine, a risultare vincenti. E, da quando ho cominciato, non ho mai smesso di essere Armani. In mezzo alla gente, per la strada, davanti alla televisione, io osservo. Sempre protagonista e spettatore di me stesso e del mio mestiere. Il mio lavoro è dentro la mia vita. E viceversa.

COCO: La moda è tutta la mia vita, anche per me.

GIORGIO: Sfortunatamente, però, il nostro è un mestiere che consente pochi svaghi, poco tempo libero e richiede un mucchio di sacrifici. A volte penso che avrei voluto essere un patriarca, forse avrei amato vivere in altri tempi, avere tanti figli, veder crescere i figli dei figli. Spesso le amicizie sono passeggere e temo sempre che gli altri mi amino per il mio successo. Mi mancano le grandi tavolate d’una famiglia numerosa e, forse per questo, confondo la mia famiglia con i collaboratori più stretti, con cui divido successi, ansie, delusioni, arrabbiature e, perché no?, gelosie.

COCO: Come ti capisco. Al lavoro ho sacrificato tutto, anche l’amore. Il lavoro ha mangiato la mia vita. Senza marito, senza figli, senza nipoti, senza tutte le incantevoli illusioni, senza tutti i miraggi che ci fanno vedere il mondo abitato da altri noi stessi, io continuerò a lavorare, e a vivere, da sola.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.