La Nazione, 8 Marzo 2021


Firenze, 8 marzo 2021 – “Essere donne pur in tutte le forme/ e non doverne mai chiedere scusa”: Passigli edita l’ ‘ncoscienza sensibile di Maria Sole Sanasi d’Arpe che restituisce con i versi uno sguardo limpido sui meccanismi di spossessamento della vita e una ribellione consapevole, altrimenti “chi si rompe e si ferma è da buttare/ e voi ridotti a pezzi freddi, rotti/ meccanismi ormai consunti e perduti”. E’ un meccanismo neofeudale che è invasivo e illude chi di volta in volta che si sente vertice in qualcosa.
Maria Laura Piccinini si avvicina a questo tema con i Passi in sordina (Florence Art) per ritrarre chi si sente “Il capo”, che “arriva arrogante, farfuglia e si acciglia./ Sorride a chi conta, arringa la folla./ Attacca chi sfugge alla gara del volgo/ che accorre all’omaggio, che sciama ossequiante… A sera rincasa con l’aria vincente,/ si volge al padrone e la boria svanisce”. Ma i ‘Passi…’ di Piccinini si muovono anche sul terreno incerto di un esilio nella città, quando “a un tratto di sotto ai piedi/ la terra si è fatta disadorna,/ mentre faceva giorno senza chiarore” e la vita diventa sensibile all’intensità di ogni ferita, anche piccola, fino a quella grande e non poco diffusa tra tante donne lasciate sole da mariti e da figli, come nei versi di ‘Quel mattino che sei nato’ . L’autrice sale allora in collina, il luogo della luce che riscalda anche la vita apparentemente disadorna, smaschera nell’unica poesia più “sociologica” della raccolta l’apparenza del ‘Capo’ ma esalta anche le possibilità dell’amicizia che con ‘A un uomo lieto’ chiude la sua raccolta. Matilde Jonas, con Banchi di Luce (ed. Lepisma), avverte i segni della stagione delle ultime cose, dove il profilo della resistenza femminile non vuole perdere “del grano la pazienza/ e la caparbietà della gramigna” per “credere nelle cose e farle crescere”. Ma questo è possibile se non si perdono le radici, che lei personalmente ritrovare in un pellegrinaggio a Dachau: “Piove sulle divelte mie radici/ e non luogo dove ritornare/ se non a questo cielo per cercare/ i miei nonni fuggiti dai camini”. Neofeudale e insensibile l’Occidente del nostro tempo vorrebbe anestetizzare il dolore, passare alla prossima cosa, come ci abitua il nuovo “cattivo maestro”: dopo la televisione, lo smartphone. Ma proprio qui la sensibilità materna incontra le ferite della Storia, non lontano, non altrove, ma nelle strade della città: “Figlio anche tu, che all’alba hanno trovato/ per strada accartocciato sopra un sogno/ tu che partisti vestito da soldato/ quasi per gioco, senza ritornare/ e tu bambino dalla pelle scura/ fuggito da chissà quale paese/ che all’incrocio mi vuoi pulire i vetri./ Tornano a notte i vostri sguardi increduli/ a tessere una rete di rimorsi/ e nel deserto dell’indifferenza/ affonda le radici la vergogna”. Anche Francesca Anselmi, con Nel lento fluire delle ore (ed. Gazebo), avverte questa scossa che diventa adozione: “Bambini/ tenuti stretti nel grembo materno,/ cullati dal dondolio dolente/ del barcone./ Bambini, quanti siete?/ Cento, duecento?/ Lungo le rive a voi sconosciute/ chi troverete ad accogliervi?/ Qualcuno o forse nessuno?”. Bisogna dire che nei più recenti volumi di poesia scritti da poetesse si scandaglia molto il senso dell’individualità, avvertita non tanto come liberazione, quanto come un limite. Nei suoi Doppi Nodi (ed. Helicon) Maria Beatrice Di Castri propone allora “l’arte impossibile e pregiata / di legare la polvere, / la coazione a scavare / cunicoli con nude mani / tra mura trasparenti”. E’ forte però la pressione all’isolamento. I “numeri primi” per Laura Capra (ed. puntoacapo) sono le donne che sentono nella punteggiatura della vita la ferita di essere una sorta di punto e virgola. In Nero fittizio (ed. puntoacapo) c’è come una corsa a volere superare questa separazione, espressa prima con immagini meteorologiche (“Coriandoli sotto le scarpe/ ghiaia tra le dita./ Disintegrazione ad ovest/ lieve perturbazione ad est”) e poi esplicitata con efficace nettezza: “La terra. Fu così che te ne andasti/ a capo/ come una matita appuntita. / Fu così che mi lasciasti/ a capo / come un temperamatite pieno./ Assente il bicchiere, il tuo. Solamente il calice, il mio”. Lidia Sella, in Aforismi (ed. puntoacapo) mette in risalto quel che accade in questa assenza: “Ti ferisci con i vetri del silenzio dopo che il vaso della parola è andato in mille pezzi”. Tra le considerazioni che muovono i pensieri raccolti lungo gli anni, Sella non lascia vincere il passato, il guardare solo indietro. D’accordo, “la vita non ha alcun senso. Tu allora riempila di significati”. E allora cercare, non rinunciare, pensare, e Sella si lancia in un aforisma ardito: se l’energia ha una massa, “non è casuale che il pensiero abbia un proprio peso”. E c’è un peso specifico, positivo e creativo, che fa rivoluzione e che Sanasi d’Arpe individua nel Magnificat e declina marianamente: “Giace nella paglia fiera Madonna/ e divide dai sudditi i tiranni/ e combatte l’ingiustizia sociale./ In ottobre ha tinti gli occhi di rosso/ e tra i suoi soldati i santi perdenti”. Michele Brancale.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.