AffarItaliani, 31 marzo 2015


Cambogia: antiche e moderne rovine da nord a sud
Siti archeologici di Siem Reap e dintorni (Beng Mealea, Koh Ker, Angkor Thom, Angkor Wat)

Fichi delle rovine: “alberi-boa” che stritolano i corpi bellissimi dei templi Khmer, insieme alle nostre illusioni di eternità.

Gigantesco Buddha, scolpito nell’arenaria, riposa sereno da quasi un millennio, disteso in cima al Baphuon.

Elefanti in cammino da secoli. Demoni e dei dalle mille maschere. Esistenze fossili e battaglie di pietra. Leggende e miti indiani confluiti in lunghissime pareti di bassorilievi che il tempo ha scalfito solo in parte. In origine, dipinti d’oro, e di un “rosso pompeiano”, di cui non resta che qualche lacerto qua e là, quasi tracce di sangue rappreso sul grigio lucido e scuro della superficie dilavata dalle piogge monsoniche.

Le cinquantaquattro torri dai quattro volti del Bayon, a rappresentare l’affascinante, proteiforme natura dell’animo umano.

Mentre i miei occhi si nutrono di immagini seducenti, la mente passeggia ancora fra le emozioni ancestrali ricavate dalla lettura di “Un pellegrino ad Angkor”, diario di viaggio scritto nel 1901 da Pierre Loti, giovane ma già coltissimo “ufficiale-poeta” della Marina Francese.

Il periodo pre-angkoriano va dal IV all’VIII secolo dopo Cristo e quello angkoriano classico dura fino al XIV: mille anni di splendore!

I gradini sempre più alti e stretti a mano a mano che si penetra nel “cuore” dei templi, a simboleggiare la fatica necessaria per raggiungere le più elevate mete spirituali.

Davanti alla terrazza degli elefanti, al nostro tocco leggero, piantine timide, e innocue, chiudono a riccio le proprie foglie.

Nel tempio delle donne, la languida danza cosmica di Siva, sospesa fra creazione, distruzione e salvezza. Solo chi comprenda che essa ha luogo nel cuore, e nel sé, ne coglierà il significato simbolico più profondo. Come ci spiega lo storico dell’arte Ananda K. Coomaraswamy, in un breve saggio pubblicato nei piccoli Adelphi.

In un bar di Pub Street, mentre sorseggiano le loro bibite, gli avventori si fanno massaggiare gambe, piedi, schiena e collo.

Fra il Tropico del Cancro e l’Equatore: Orione allo zenit, la “W” di Cassiopea tramutata in una “M” e sorella luna a guidarci nella notte.

La firma dei fuochi d’artificio sui primi vagiti del 2015, nei cieli antichi di Siem Reap.

La povertà in vetrina delle case galleggianti sul grande lago Tonle Sap. E quella ferocia disperata dei coccodrilli dietro le sbarre.

Verso la capitale

Dai finestrini del pullman… Palafitte di legno con i tetti di paglia. Giovani vite smarrite in una nebbia di terra rossa. Vecchi mutilati, avvolti in ragnatele di rughe. Vassoi colmi di tarantole fritte. E trappole di luce verde per grilli sprovveduti.

A Sambor Prei Kuk – antica Isanapura – ieratiche architetture disseminate nella giungla. Bambini affamati di dollari e d’amore. E impronte di bombe americane, sganciate dai B52, ferite ancora aperte sul cuore dell’uomo.

A Phnom Penh

Per piccole grazie quotidiane, i fedeli si recano di fronte a Palazzo Reale, sul lungo-fiume, in un tempietto devozionale stile Las Vegas, con statue sacre che sembrano pupazzi da luna-park, nella luce sintetica del neon a intermittenza. Unica nota mistica, il profumo di incenso bruciato.

Davanti alla Watt Phnom, uccellini in gabbia addestrati alla recita della libertà: i turisti pagano per vederli volar via. Senza immaginare che, dopo aver sorvolato l’isolato, i volatili ammaestrati torneranno “spontaneamente” alla loro prigione.

Al Museo Nazionale, impressionate gruppo scultoreo di un combattimento fra scimmie giganti.

Sciami di moto-taxi colorati – chiamati took took – sfidano allegramente il traffico, “sgomitando” fra le autovetture, con una prepotenza non priva di grazia.

Al Mercato Centrale. L’odore intenso del pesce essiccato al sole si mescola al profumo di orchidee e gelsomino. Cataste di strani frutti fucsia, chiamati “draghi”: misteriose creature da fantascienza, anello di congiunzione fra mondo animale e vegetale.

Un futuro impaziente preme dietro i petali ancora chiusi del fior di loto.

La tela del tramonto appesa lungo i muri del Mekong, il Nilo della Cambogia. Mentre il misero volto di una bidonville sbuca dal folto della boscaglia.

Fino alla costa meridionale

Nuvole riflesse nelle risaie.

Vacche spettrali, bianchissime, che pascolano fra palme e banani.

Strade, prati e scogli punteggiati di plastica.

Due rimpianti: non aver visitato la grotta di Phnom Chnork; e non aver assistito allo spettacolo del tradizionale teatro d’ombre.

L’orgogliosa decadenza delle ville coloniali di Kampot: un’Avana in miniatura.

Kep: amache dove si cullano neonati, granchi in salsa al pepe e, sulle bancarelle, piramidi di durian, mostruosi “frutti-porcospino”.

A Koh Rong, interminabile candida spiaggia, un tappeto di talco che al nostro passaggio scricchiola come neve fresca.

Alle porte di Sihanoukville, crepuscolo a “Outres 2”, di fronte al delizioso Hotel Tamu: la palla infuocata del sole si tuffa in verticale nell’equorea distesa dell’Oceano Indiano.

I fondamenti della religione induista: una spiritualità eroica, aristocratica; l’amore per il sapere; la bussola di un eterno divenire.

La metafisica magrezza dei monaci buddisti, quella loro aura di beatitudine e la gente che lungo la via si inginocchia per pregare davanti a loro.

Il saluto della popolazione locale, detto “Sompiah”, un inchino a mani giunte, lo sguardo tinto di una speranza mesta e un sorriso che affiora da anime tenaci, ancora segnate dall’orrore dei massacri di Pol Pot.

Note pratiche

La Cambogia, con i suoi centottanta mila chilometri quadrati, ha una superficie pari al 60% dell’Italia.

Oltre il 40% della popolazione ha meno di sedici anni.

Phnom Penh – un milione e quattrocentomila persone – l’unica vera città.

Gli abitanti delle campagne perlopiù non dispongono di servizi igienici.

Presenza kitsch: un orinatoio nel bagno della mia camera d’albergo.

Alto tasso di umidità persino nella stagione secca.

Cielo sovente velato, regala scenografici tramonti.

Per le vaccinazioni, consultare il sito “Viaggiare sicuri” della Farnesina.

Se si sceglie di non sottoporsi alla profilassi anti-malarica, conviene almeno dotarsi di repellenti per zanzare.

Rispetto al nostro Paese, sei ore di fuso.

Qui la natura si sveglia presto. Ho sentito un gallo cantare alle tre del mattino.

Le prese elettriche funzionano senza bisogno di adattatore.

Se si acquista una scheda telefonica da un operatore locale, le chiamate internazionali risultano assai economiche.

La nostra guida non sa maneggiare il denaro locale (Riel). Conosce solo il valore dei dollari. Parla male l’italiano, poverissimo il suo vocabolario, storpia le parole in maniera irritante, sbaglia la pronuncia, gli accenti, le doppie. E poiché non sa nulla di arte, architettura, storia, religione, mitologia, filosofia, ci trasmette solo informazioni vaghissime, ripetitive, culturalmente irrilevanti.

I ristoranti per turisti sono puliti e arredati con gusto. Di solito il servizio è un po’ lento e disordinato. Il livello gastronomico è abbastanza buono. Curry e involtini primavera: una cucina a metà strada fra India e Cina. Oltre all’onnipresente riso (in cambogiano mangiare si dice “mangiare riso”), vengono serviti verdure e pesce fresco, anche d’acqua dolce. Gustose le zuppe. Per un palato occidentale, la carne rossa locale è un po’ stopposa. Meglio il pollo. Il cibo è spesso piccante e molti piatti sono a base di frutta. E’ raro trovare il pane. Però qualche volta vengono offerte le “baguette”, retaggio del passato coloniale francese.

Hangkor, il nome dell’ottima birra nazionale. Il vino, tranne quello ricavato dal riso, è solo d’importazione. Come l’acqua minerale. Si trovano la Perrier, la San Benedetto e la San Pellegrino. Ma a prezzi proibitivi.

Infinite colonne di camion. Lunghi tratti di strade bianche disseminate di buche e dossi. Si viaggia su bus antidiluviani, senza ammortizzatori. Causa continui sobbalzi e scossoni, il mal di schiena si acuisce. Ogni sorpasso un rischio. I trasferimenti diventano interminabili: trecento chilometri in otto ore.

Alcuni giornali locali sono scritti in inglese. Però la lingua ufficiale cambogiana è il Pãli, che deriva dal sanscrito.

Qui la musica – anche quella suonata per strada – parla il linguaggio dell’anima. Per accostarsi al suo magico mistero, occorre prima sposarne l’intrinseca spiritualità.


Lidia Sella, giornalista, scrittrice, aforista, poeta. Ha pubblicato sette libri. Due con il Gruppo Rizzoli: Amore come, Sonzogno, 1999; La roulette dell’Amore, Bur, 2000. E tre sillogi, con La Vita Felice: La figlia di Ar – Appunti interiori (2011); Eros, il dio lontano – Visioni sull’Amore in Occidente (2012); Strano virus il pensiero (2016). Nel 2019 ha dato alle stampe Pensieri superstiti con Puntoacapo Editrice. Nel 2020 è uscita con Pallottole, contro la dittatura dell’Uno OAKS Editrice.